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La questione palestinese come merce di scambio

L'attacco terroristico di Hamas di ormai un anno fa (7 ottobre 2023), concretamente, nessun effetto positivo ha prodotto alla causa Palestinese la cui sorte rimane nelle mani, comunque, di Israele che, come reazione, senza remore, ha imboccato, ormai, un'altra strada rispetto al recente passato, in ragione, anche, del mutamento del quadro e degli equilibri geopolitici in medio oriente.

Ed invero, la soluzione “due stati due popoli” uno ebraico e uno arabo, proposta che viene ipotizzata da oltre un secolo come unica via d'uscita al conflitto israelo-palestinese, appare sempre più remota, per come apertamente disvelato, tra l'altro, in una conferenza stampa del 4 settembre scorso, dal premier israeliano Benjamin Netanyahu, il quale ha mostrato una carta geografica in cui non compare più la Cisgiordania (West Bank), mentre Israele si estende dal Mar Mediterraneo al fiume Giordano comprendendo quindi i territori occupati.
Nei piani strategici del governo israeliano attuale, quindi, non è prevista più come ai tempi di Isaac Rabin, Shimon Peres e Ehud Barak la nascita dello Stato di Palestina (vedi incontri di Camp David del luglio 2000 tra Barak ed Arafat), ritenuto punto necessario ed irrinunciabile per assicurare la sicurezza di Israele e la distensione in tutta quell'area, oltre che il legittimo riconoscimento del diritto dei Palestinesi ad aver un proprio Stato.
Lo slogan “terra in cambio di pace”, principio a cui si sono ispirati gli accordi di Oslo, è stato archiviato, a seguito di una profonda “mutazione politica, culturale ed antropologica” dello Stato di Israele degli ultimi 20-25 anni circa, essendosi affievolita quella visione laica e liberale dei padri fondatori, in favore di una spinta dei movimenti teocratici dei partiti della destra come Likud e, ancor più, sotto la spinta della estrema destra rappresentata dal partito sionista religioso che milita apertamente per uno Stato ebraico con l’esclusione dei Palestinesi, il cui destino sarà quello di essere scacciati la maggioranza di essi manu militari dai territori e quelli restanti “assorbiti” nel nuovo Stato ebraico.
Quindi, un territorio che si estende dal Mediterraneo alla Valle del Giordano è grossomodo il piano del premier Benjamin Netanyahu e dei nuovi vertici dell'elite israeliana per ricostituire il “grande Israele” (non quello meramente biblico), attraverso la presa di Gaza e Cisgiordania e dalla costruzione di un enorme muro al confine con la Giordania la cui realizzazione, di fatto, genererà ulteriori contrasti, conflitti e stravolgimenti anche di natura ambientale.
Per realizzare tale disegno, l’assedio di Gaza, l’invasione del Libano meridionale sono i primi passi necessari (dal punto di vista di Tel Aviv) per giungere alla “vittoria decisiva” che significa una guerra che emanciperà Israele “dall’emergenza permanente” alla stabilizzazione definitiva dei propri confini, scoraggiando in tal modo tutti i nemici nella regione, a cominciare dall’Iran, dal provocare ulteriori conflitti con lo “Stato Ebraico”. Questi, in effetti, nell'ottica della normalizzazione dell’area, ha stipulato gli accordi di Abramo che molto probabilmente saranno allargati all'Arabia Saudita ed ad altri partners arabi, i quali in cambio della difesa di Tel Aviv rafforzeranno intese commerciali e relazioni economiche con essa.
Dunque, nell'agenda politica attuale non esiste la questione palestinese che la storia insegna ma è stata trattata da tutti, come sempre, merce di scambio.

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