Un pugno nello stomaco e una stretta al cuore
- Scritto da Mario Gaudio
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- Pubblicato in L'angolo del libro
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Poche ore ci separano dalla annuale celebrazione del gentil sesso che, come da tradizione, si è consumata tra colorati tributi floreali, discorsi sui sacrosanti diritti delle donne e qualche eccesso di retorica che, inevitabilmente, inquina il percorso verso una parità a cui una società che si atteggia a moderna e progressista non può e non deve rinunciare.
Il Caso ‒ o chi per lui ‒ ha determinato che concludessi proprio in questo frangente la lettura de L’anniversario, breve ma intensissimo romanzo di Andrea Bajani, in cui, alla tematica della disfunzionalità familiare si affianca quella di una condizione femminile degradata a causa degli eventi e impossibilitata ad uscire dal pantano della violenza fisica e psicologica esercitata tra le mura di casa che, paradossalmente, smettono la loro funzione protettiva divenendo insospettabile luogo di sofferenza.
La narrazione ha inizio con una fine, quella del rapporto tra il protagonista e i suoi genitori, e subito si chiarisce il senso del titolo che commemora il decennale di questa salvifica rottura sintetizzata in maniera lapidaria in una liberante considerazione: «Sono stati i dieci anni migliori della mia vita».
Sin qui, il lettore ‒ rigoroso giudice e carnefice ‒ potrebbe cedere alla tentazione del pietismo, lasciandosi indignare dall’immagine distorta del giovincello scapestrato che saluta e condanna le sue origini per gettarsi a capofitto tra le sregolatezze mondane ‒ una sorta di non pentito figliol prodigo ‒, magari a spese delle fatiche familiari contro cui rivolge i propri abusati strali da consumato radical chic, ma la realtà è ben diversa e la fuga necessaria.
Basta scorrere qualche altra pagina e l’arcano è disvelato: la famiglia è anatomizzata dal potere della scrittura ed appare nella sua reale natura di «piccolo universo concentrazionario» in cui giganteggia la figura oppressiva e repressiva di un padre che sfoga i suoi demoni sui congiunti, devastandone le esistenze e disgregandone animi e sentimenti.
Circondate dalle lunghe ombre delle montagne piemontesi, le vicende domestiche assumono tinte ancor più fosche, ma per capirne le motivazioni è giunto il tempo di sondare l’abisso.
Un trasferimento mal concepito e altrettanto malamente realizzato sposta un legame sentimentale, già poco equilibrato, dalla movimentata Capitale all’isolamento di un piccolo borgo del Piemonte rurale. La donna accetta, suo malgrado, l’allontanamento dalla geografia delle radici e, infatuata dall’atteggiamento sprezzante dell’uomo che ha accanto, si lascia modellare a tal punto da diventarne una sua «diretta emanazione», annientando una personalità di per sé timida e accettando un tacito e velenoso compromesso per cui «lui voleva che lei fosse niente per potere, lui, essere qualcosa, e lei voleva essere niente perché essere niente era almeno qualcosa».
La più battagliera tra le femministe ‒ che, solitamente, è anche la più superficiale ‒ potrebbe precipitosamente condannare l’indolenza di questa donna, additandola come esempio negativo, ma la tirannia dei fatti supera di gran lunga l’insieme delle teorie e la sottomissione economica alla quale il padre/padrone della nostra storia sottopone la famiglia diviene un mezzo infallibile per far desistere da qualsivoglia forma di ribellione. La madre del protagonista tenta la via del lavoro come forma di riscatto, ma la precarietà ‒ effetto collaterale di un capitalismo che compra cose e persone e si alimenta delle insicurezze sociali che volutamente genera ‒ recide brutalmente anche questo flebile filo di speranza e la costringe ad accettare le piccole elargizioni monetarie che il suo coniuge le distribuisce periodicamente per incrementare una dipendenza che si fa, a lungo termine, definitiva.
La vita familiare si trasforma in controllo, stillicidio, volontario processo di allontanamento dalla normalità e dalla comunicazione che si traduce in un episodio particolarmente significativo. Mentre, agli inizi degli anni Ottanta, il telefono invade le case degli italiani, l’arcigno padre ne nega l’acquisto, ufficialmente per contenere le spese, oggettivamente per limitare la comunicazione della moglie con i propri genitori e, dunque, con il mondo esterno alla inquietante bolla che è riuscito a costruire. Soltanto dopo quindici lunghi anni dal trasferimento, «mentre l’Italia si preparava al cellulare», il burbero capofamiglia concede l’attivazione di una linea fissa, salvo un vaglio meticoloso di spese e telefonate.
Il clima di casa risulta sempre più insostenibile, dipendente dall’umore altalenante della figura paterna che, puntualmente, fa succedere agli scatti d’ira un ancora più devastante «silenzio punitivo» nel quale fa piombare quell’«inferno domestico» di cui è incontrastato demiurgo.
Non mancano le minacce, le percosse, gli sproloqui, i costanti tentativi di sminuire il valore e le azioni di moglie e figli, i gesti deprecabili che meritano condanne senza appello, tra cui quello condensato dal narratore in una immagine dal fortissimo valore simbolico e dall’altrettanto vigorosa indignazione che ne scaturisce: «Mio padre che tira fuori dal frigorifero la torta di compleanno di mia sorella e la scaraventa a terra».
Non c’è vergogna in quest’uomo ‒ quanto lontano dal mite, simpatico e sventurato padre raccontato recentemente da Dario Voltolini nel suo Invernale! ‒, probabilmente affetto da non diagnosticata malattia, sicuramente privo di ogni moralità e vittimista sino al parossismo anche nel rapporto con sua madre, «detestata, maledetta, e infine seppellita», ma il cui ritratto è incorniciato in più fattezze sulle pareti dell’abitazione.
Siamo in uno stato prossimo alla ferinità e se la consorte si lascia annichilire sino alla rinuncia di sé e di ogni legittima prerogativa, differente è l’atteggiamento della prole che, dopo decenni di passiva e logorante sopportazione, si abbandona a scelte radicali che si traducono nel disprezzo da parte della figlia e nella fuga del figlio che, quasi a scopo terapeutico, decide di metter mano alla penna per ricostruire l’indicibile baratro da cui ha avuto la forza di risalire.
Non ci è dato sapere quanto di autobiografico ci sia nel romanzo di Bajani, ma il caso descritto è molto più comune di quel che non si creda. Dei personaggi ignoriamo il nome di battesimo e ciò tratteggia un quadro ancor più angosciante poiché essi potrebbero essere liberamente identificabili con chiunque.
L’anniversario ci restituisce una realtà dura e veritiera ‒ in netto contrasto con l’italianissimo e cattolicissimo concetto di famiglia ‒, purtroppo sempre più visibile sulle pagine di cronaca nera dei nostri quotidiani.
Siamo di fronte ad una lettura che lascia irrimediabilmente l’amaro in bocca. Le pagine di Bajani hanno la forza di un pugno nello stomaco e la brutalità improvvisa di una stretta al cuore, ma proprio questo le rende salutari e indispensabili in un periodo di torpore generalizzato delle coscienze.
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Emanuele Armentano