La riabilitazione di Dante Alighieri
- Scritto da Alcide Simonetti
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Dante Alighieri non fu soltanto un poeta e letterato, ma anche un uomo d'azione e politico, peraltro, di rilievo nella Firenze della fine del XIII secolo, città in piena espansione economica; capitale, ormai, della finanza europea; sede delle maggiori banche come quella dei Bardi, dei Peruzzi, degli Acciaiuoli e degli Albizzi che, all'epoca, erano in grado di finanziare città, Stati ed Imperi. In quella Firenze, in pieno fermento economico, sviluppo urbanistico, dinamismo sociale, un vero e proprio cantiere a cielo aperto, dove circolava un fiume di denaro, il giovane Poeta giocò un ruolo principale nella complicata vita politica della città guelfa corrotta, ormai, dalla cupidigia del potere e della ricchezza come lo stesso Dante stigmatizzò nel XV Canto del Paradiso con le parole severe di Cacciaguida, suo avo.
Con la battaglia di Campaldino, che segnò il declino definitivo dei Ghibellini, iniziò la sua fulminante carriera politica, schierandosi, sebbene la moglie Gemma fosse legata alla famiglia dei Donati (essendo la figlia di messer Manetto Donati), dalla parte dei Guelfi Bianchi, fazione di matrice popolare, capeggiata dai Cerchi.
Alighieri all’inizio divenne Capitano del Popolo, poi entrò a far parte del Consiglio dei Dieci e, infine, nel 1300, assunse la funzione di Priore (15.06.1300 al 15.08.1300), magistratura tra le più ambite e strategiche nelle dinamiche del reale potere della città che alla lunga, comunque, gli furono fatali.
L'autonomia comunale rispetto al potere papale fu al centro dell'azione politica del “Divino Poeta”, il cui tentativo di un ridimensionamento della Politica d'ingerenza ed espansione vaticana, ne pregiudicarono l'esistenza. In effetti, schierato con i Bianchi, Dante si venne a trovare sempre più isolato dai suoi, oltre che odiato a morte dai suoi avversari, per via della sua partecipazione al Consiglio dei Cento che aveva deciso la messa al bando dalla città degli esponenti più violenti delle due fazioni tra cui il suo migliore amico Guido Cavalcanti.
Quindi, tale difficile contesto cittadino ed la lotta contro Papa Bonifacio VIII, considerato il massimo esempio dell’imperante malcostume della Chiesa, furono la causa principale delle disgrazie di Dante, il quale, dopo la presa del potere a Firenze da parte della fazione dei Guelfi neri, subì da parte di messer Cante dei Gabrielli da Gubbio, nominato (dagli avversari) Podestà di Firenze, una vile azione persecutoria, per cui Dante, oltre a vedersi saccheggiata la casa, finì sul banco degli imputati con accuse infamanti, tra cui l’estorsione e la baratteria. Invero, il 27 gennaio 1302, sulla base di una legge ad personam, che consentiva di sottoporre a nuovo procedimento i priori dei due ultimi anni, già peraltro assolti in precedente giudizio (compreso Dante), il podestà di Firenze emise una sentenza di condanna in contumacia, contro Dante (che si trovava in missione a Roma) e di altri quattro cittadini di parte Bianca. Fu la conclusione di un processo la cui parzialità traspare dalla stessa formulazione delle imputazioni. Vi si dava credito, infatti, ad un’accusa di «baractarias, lucra illicita, iniquas extorsiones in pecunia vel in rebus». La contestazione era basata non su testimonianze, ma su voci diffuse («fama publica referente»). Il giudice rinunciò ad individuare le responsabilità personali di quegli odiosi delitti, che si dicevano appunto commessi o personalmente o per mezzo di altri, mentre scopertamente politica era un’altra imputazione, quella vera, che individuava in Dante e nei Bianchi la responsabilità di aver esiliato i Neri e di aver opposto resistenza all’intromissione nella politica fiorentina di Bonifacio VIII e del suo “paciaro” Carlo di Valois. Senza uno straccio di prova, il “sommo Poeta”, secondo il Podestà ( e i suoi collaboratori) avrebbe favorito le elezioni dei Priori legati alla propria fazione nei mandati successivi, la cui condotta rientrava nella configurazione del delitto di Baratteria che nel sistema penale attuale ha forti analogie con il reato di “traffico di influenze” ex art. 346 bis del codice penale.
La pena irrogata per il suddetto reato consistette in una multa di cinquemila fiorini da pagare alla cassa del Comune di Firenze; una volta pagata la multa, e restituito il maltolto agli aventi diritto, i condannati avrebbero subito il bando per due anni «extra provinciam Tusciae»; inoltre, qualora la multa non fosse stata pagata entro tre giorni, i beni dei condannati avrebbero subito devastazione e confisca. Dante, non essendosi presentato, era stato con altri condannato a morte in contumacia, con sentenza emessa il 10 marzo 1302. A seguito delle predette condanne nel giugno dello stesso anno venne votato a Firenze un altro provvedimento che comminò la stessa pena anche ai figli dei condannati, appena avessero compiuto il quattordicesimo anno di età.
Per evitare che fosse arso vivo, Dante fu costretto all'esilio. Questi, proprio all'apice della carriera politica, in quel “mezzo del cammin di nostra vita...” iniziò, il cammino doloroso, che fu anche svolta (“che la diritta via era smarrita) umana, politica e culturale del “Ghibellin Fuggiasco”. Egli “ramingo ed esule” non tornò più nell'amata-odiata “città del Giglio”, sebbene i vani tentativi di rientrare, ma purtuttavia generò quel miracolo poetico che l'ingegno umano non potrà mai equiparare.
Dopo settecento anni, sebbene il cuore e le menti degli italiani e dell'umanità abbiano assolto il “Divin Poeta” da ogni vile ed ingiusta accusa, sarebbe doveroso (o almeno di buon gusto) che la Repubblica Italiana e la Città di Firenze con un atto formale riabilitassero il Padre della Lingua e Letteratura Italiana.
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Emanuele Armentano