Annus mirabilis, sed horribilis
- Scritto da Mario Gaudio
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- Pubblicato in L'angolo del libro
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Le pandemie sono tutte uguali o forse, più realisticamente, sono gli uomini ad essere sempre gli stessi di fronte ad esse, mostrando la loro natura varia e contraddittoria che l’ineluttabile scorrere dei secoli non scalfisce né muta.
Inghilterra, 1666. L’annus mirabilis, che dà il titolo al romanzo di Geraldine Brooks, presenta tutti i crismi per essere consegnato alla storia come annus horribilis: gli inglesi sono in guerra contro gli olandesi; un incendio spaventoso divampa a Londra, distruggendo gran parte della città e ridisegnandone definitivamente la topografia; come se non bastasse, una pestilenza falcidia la popolazione da mesi, spargendo lutto e disperazione.
È all’interno di questo terribile quadro che prende avvio il racconto delle vicende di un piccolo villaggio di contadini e minatori della contea del Derbyshire. L’esistenza vi scorre monotona e faticosa, scandita dalle tradizioni avite e dallo stretto contatto con la terra che alimenta la comunità tramite le ricchezze del suolo e del sottosuolo. Tuttavia, d’improvviso, un sarto girovago di nome George Viccars, che è temporaneamente alloggiato in una cameretta presso la casa di Anna, giovane vedova protagonista del romanzo, muore ‒ dopo brevi ma atroci sofferenze ‒ ricoperto di inquietanti bubboni. È il panico.
Per quanto la vittima abbia chiesto negli ultimi istanti di lucidità di dare alle fiamme i suoi pochi effetti personali ‒ desiderio, purtroppo, rimasto inascoltato ‒, il morbo inizia a diffondersi e a recidere le prime vite.
Mr Mompellion, pastore anglicano nella cui residenza Anna lavora come domestica, cerca in tutti i modi di arrecare conforto ai morenti, assistendoli spiritualmente e materialmente, ma il popolo, invasato dalla paura e dalla superstizione dinanzi ad una morte che giunge improvvisa e senza apparente spiegazione, comincia a manifestare insofferenza e a far emergere ancestrali e istintive forme di autoconservazione che degenerano in violenza.
Le prime vittime di tali irrazionali comportamenti sono le due guaritrici del luogo ‒ Mem e Anys Gowdie ‒, donne esperte nell’utilizzo delle erbe medicamentose e, more solito, additate irrimediabilmente come streghe.
Nonostante il deprecabile sfogo di crudeltà popolare, la peste continua a seminare la strage e Anna, privata in brevissimo tempo dei suoi figli, affianca Elinor Mompellion ‒ moglie del presbitero ‒ in un certosino lavoro di conoscenza dei poteri curativi delle piante e nella produzione di rimedi in grado di attenuare gli spasmi dei malati e corroborare i corpi dei sani.
Le settimane trascorrono e il vuoto desolante dei banchi della chiesa è spaventosamente proporzionale alla mancanza di ulteriore spazio nel cimitero locale. Il pastore decide pertanto di serrare i ranghi della comunità, chiedendo ‒ durante un infuocato sermone ‒ un ulteriore, gravosissimo sacrificio: isolare l’abitato in modo tale da impedire la propagazione del morbo nei borghi viciniori.
L’idea è positiva ed è accolta con una certa disciplina, ma i Bradford ‒ gli unici notabili della zona ‒, ben consapevoli del fatto che «la ricchezza e le amicizie non forniscono uno scudo contro la peste», preferiscono oltrepassare la pietra di confine, benché chiamati a dare l’esempio dal religioso anglicano che, nelle parole e nei gesti utilizzati in questo estremo tentativo di persuasione, ricorda molto da vicino il fra’ Cristoforo di manzoniana memoria a cui la difesa dei poveri urge al di là delle boriose rimostranze del superbo don Rodrigo.
Uomini, donne e bambini continuano a calare nella tomba tra febbri e sussulti, ma con essi spariscono anche mestieri e abilità a cui la collettività non può rinunciare. Ci si industria a rimpiazzare i defunti in nome di una continuità necessaria, alcune volte con esempi positivi ‒ Anna ed Elinor si improvvisano levatrici, aiutando a far sorgere la luce della vita lì dove prevalgono i colori cupi della brughiera e delle gramaglie ‒, altre con azioni biasimevoli, come nel caso di Josiah Bont, alcolizzato e violento padre di Anna, che, assunto il ruolo di becchino, si lascia irretire da un’avidità disumana che lo condurrà ad una triste e solitaria fine.
La durezza dei tempi e delle circostanze mette alla prova il carattere degli uomini e il dilagare della pestilenza si accompagna ad atti di pericoloso fanatismo: compaiono nel lugubre scenario delineato dalla malattia sia le maceranti penitenze di chi si improvvisa flagellante (lo stralunato John Gordon) sia gli strani rituali di Aphra, matrigna della protagonista, che veste i panni di folle e pericolosa fattucchiera.
Il dolore diviene per i pochi superstiti una muta preghiera al dio sordo della Storia, ma l’esasperazione generale inizia a placarsi quando, per una sorta di fulminea intuizione ‒ non certamente scientifica, dacché la scoperta delle cause della peste è ancor lontana nel tempo ‒, il pastore Mompellion suggerisce un grande rogo di masserizie e abiti appartenuti ai contagiati.
Le fiamme lavorano a dovere e il morbo si smorza, ma il devastato paesello paga un ulteriore tributo di morte che si consuma con un efferato quanto inaspettato omicidio.
Questo sangue innocente si trasforma in occasione propizia, affinché segreti gelosamente custoditi diventino palesi, chiarendo al lettore l’atteggiamento di alcuni personaggi e introducendo un fatale cambiamento di prospettiva che porterà a mutare inevitabilmente il giudizio su alcuni di essi.
La narrazione si conclude lontano dal villaggio, in un contesto religioso mutato ‒ dall’anglicanesimo all’Islam ‒, ma con la certezza che, nonostante i patimenti più atroci e le distanze geografiche, i vizi e le virtù umane non subiscono mutamenti. Caelum, non animum mutant qui trans mare currunt: saggezza implacabile del vecchio Orazio.
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